Confronti: Alan Wake vs. Heavy Rain

Sottotitolo: “Esito di una sfida inesistente“..

Chiariamolo subito: spacciato e considerato suo malgrado dal pubblico come l’ “anti-Heavy Rain” di casa Microsoft, Alan Wake di Remedy ha perso la battaglia nella quale era stato forzosamente coinvolto, anche se più per l’assenza di un vero terreno di scontro che per suoi effettivi demeriti.

Le differenze fra i due giochi sono infatti tante, troppe anche solo per accennare un confronto che non verta unicamente sulle rispettive componenti narrative, in entrambe i casi innovative, marcatissime e qualitativamente impressionanti.

Il problema è che andando oltre queste ultime, ci si trova di fronte a due universi differenti e ben poco tangenti (Donnie Darko docet..): da un lato abbiamo un titolo atipico, rivoluzionario, che non può essere ricondotto al genere delle avventure grafiche se non tenendo ben presente il suo predecessore Fahrenheit e prendendosi una serie di licenze tali da renderne comunque difficoltosa la definizione; dall’altro invece troviamo un gioco che si muove tra l’action-adventure ed il survival horror, concedendo occasionalmente qualche indizio marginale delle sue origini free roaming e in cui è palese la pesante -forse troppo- eredità di Max Payne.

Nonostante quindi un confronto diretto appaia difficilissimo, nonchè di dubbia utilità, il fatto che i due titoli in questione siano stati presentati al pubblico come se in un certo qual modo fossero in competizione diretta ci porta a metterli comunque in relazione, e il risultato finale di questo forzatissimo incontro/scontro va a scapito del titolo Remedy per più di un motivo.

Anzi: a ben guardare, Alan Wake risulta come una sostanziale, involontaria risposta a tutti coloro che hanno criticato il titolo Quantic Dream per il suo non essere un videogioco nel senso più classico e ludico del termine, arrivando paradossalmente a far risaltare nuovamente l’unicità e la concretezza dell’atipico impianto di Heavy Rain.

Alan Wake infatti gioca sostanzialmente a carte scoperte: intuiamo il forte legame “citazionista” con il mondo reale sin dalla carrellata iniziale, con una frase di Stephen King che è tanto una dichiarazione d’amore quanto d’intenti; di lì a poco acquisiremo il sistema di combattimento, che resterà pressochè identico per tutto lo svolgersi del gioco, e infine sempre nell’introduzione ci vengono mostrate l’ottima regia e la particolarissima suddivisione in episodi stile serial TV.

In sostanza, poco dopo l’introduzione, abbiamo già saggiato tutte le caratteristiche che rendono speciale il titolo Remedy, lasciando all’ottima trama il compito di portarci fino alla fine della storia.

Heavy Rain al contrario si rivela poco a poco, lasciando alla seconda tornata la comprensione reale di quella che è la sua caratteristica principale e fondante, ovvero la facoltà di comporre la propria storia, mentre nel primo giro tutto sembra scorrere in modo quasi lineare, lasciando soltanto immaginare al giocatore dove possano essere i tanto decantati bivi narrativi, ma senza fornirgli in effetti alcun indizio concreto.

Tant’è che, se lo avete rigiocato, avrete scoperto che per cambiare il finale spesso bisogna intervenire proprio dove non ci si aspettava..

Eppure lo scrittore in crisi di Remedy ha diverse frecce al suo arco:

Innanzi tutto una località realistica, ampia, in cui difficilmente si ha la fastidiosa (quanto tragicamente comune) sensazione di stare visitando sempre lo stesso posto, e quando questo avviene ci sono sempre cambiamenti sostanziali e giustificazioni narrative quasi mai pretestuose.
Anche nelle frequenti fasi campestri, che si interrompono giusto un attimo prima di lasciarsi percepire come mère scuse per isolare il giocatore e immergerlo nel background ideale per le fasi di combattimento/fuga, l’ambiente è sempre ben diversificato, dando l’impressione di stare realmente esplorando una montagna il cui aspetto è sempre uguale e sempre diverso.

La divisione a episodi poi funziona meravigliosamente, invogliando a proseguire ben più di quanto non avvenga normalmente anche in giochi più vari per ambientazione, come ad esempio Uncharted,  e lenisce quel senso di ripetitività che a volte può insinuarsi in giochi che per loro natura sono fortemente strutturati e divisi in sezioni a camere stagne.

Infine, come dicevamo, la presenza di filmati “reali” così come di continui meta-riferimenti a scrittori ed eventi realmente esistenti o accaduti, rompe il muro dello schermo risultando inquietante in maniera sottile ed inedita, rispetto all’orrore più becero di giochi come Resident Evil.

Ma è nell’unico, vero terreno di scontro, ovvero la narrazione, che il thriller psicologico dello sviluppatore finlandese perde terreno: a differenza di Heavy Rain, in cui la componente ludica è stata sviluppata in funzione del racconto, in Alan Wake si è comunque partiti dalla parte giocata per poi aggiungere quella narrativa, ed il risultato è un videogioco più classico che, cedendoci il controllo, diluisce -forse eccessivamente- un’esposizione della storia che per il resto del tempo (filmati e fasi diurne) è piuttosto appassionante e serrata, dando quindi l’idea di una “fisarmonica narrativa” in cui i tempi si dilatano e si restringono in maniera fin troppo regolare. I colpi di scena e gli eventi più importanti hanno luogo sempre durante cut-scene più o meno interattive, lasciandoci soltanto l’onere della sopravvivenza da un punto all’altro della trama.

Una tradizione a cui Remedy si è dovuta piegare nonostante tutto per non compromettere lo svolgimento della storia, altare al quale era già stato sacrificato il free roaming inizialmente previsto per il gioco, di cui peraltro si percepiscono ancora le tracce nell’ampiezza degli ambienti esplorabili, che risulteranno però piuttosto vuoti a chi preferisce prendersi il proprio tempo piuttosto che seguire l’ottimo crescendo di ritmo inscenato dallo sviluppatore.
Al di là di questo, bisogna dare ragione a Remedy del ripensamento rispetto ad una struttura più dispersiva: al di là dei temi adulti è la coerenza narrativa quella che colpisce, creando una sospensione dell’incredulità che tiene in maniera egregia, e fornendo comunque ad Heavy Rain un avversario credibile e da non sottovalutare, specie considerando che si parla già di un seguito che potrebbe veramente trovare un ulteriore trait d’union tra gioco e narrazione, alternativo a quello teorizzato da Quantic Dream.

Tornando però a quello che effettivamente abbiamo oggi tra le mani, Alan Wake esce sconfitto dalla nostra sfida inesistente.

Fosse uscito due anni fa, il pubblico lo avrebbe probabilmente accolto in modo molto più entusiastico, trattandosi comunque di un grosso passo avanti, narrativamente parlando, rispetto alla media dei videogiochi.
Purtroppo oggi, dopo il capolavoro di Quantic Dream, Alan Wake sembra invece osare troppo poco, nel suo personale tentativo di unire media e arti differenti.

[Scritto in origine per InsideTheGame.it]

Posted in Confronti, Inside The Game | Tagged as: , , , , | Leave a comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.